Agrodolce, bye - bye


Adesso è davvero finita. Dopo la Regione Siciliana, anche la Rai ha scritto la parola fine sul libro dei sogni di Agrodolce, la fiction in salsa siciliana voluta da Giovanni Minoli, girata ed ambientata prevalentemente a Termini Imerese. Doveva essere il fiore all’occhiello della Regione, per un sogno industriale  siciliano di sviluppo e occupazione, ma la fiction ha ora ricevuto il definitivo colpo di grazia anche da mamma Rai, che l’ha cancellata per sempre dal suo palinsesto. La tivù pubblica infatti non metterà più in onda Agrodolce, mandando così definitivamente in fumo le speranze di quanti vedevano nel programma il trampolino di lancio per altre produzioni tivù e quindi la necessità di realizzare nuovi, megagalattici teatri di posa o quantomeno di riconvertire gli stabilimenti ex Fiat di Buonfornello in enormi studios, con lavoro ed assunzioni a gogò. E questo sogno si è adesso rivelato solo una chimera. Cancellando Agrodolce, la Rai ha in pratica deciso pure di rinunciare ai contributi pubblici, che la Regione aveva già stanziato, perché la chiusura della fiction significa dire addio ai 25 milioni di euro di fondi Fas, che erano destinati alla seconda e terza serie del telefilm siciliano e che d’ora in poi non ci saranno più, per non parlare del danno occupazionale fatto a molti giovani che hanno contribuito alla realizzazione della prima serie. Ma tutta l’operazione non si è chiusa in maniera indolore. Per Agrodolce la Regione ha infatti già speso 10 milioni di euro per la prima serie, trasmessa nel 2008 sulla terza rete Rai, prima del tiggì. Ma l’anno successivo sono cominciati i primi intoppi. Dapprima il rischio di chiusura della soap per mancanza di soldi, poi i finanziamenti che arrivano dalla Regione, che mette 25 milioni di euro, e dalla Rai, che ne metterà altri 20. Così, con questa boccata d’ossigeno, Agrodolce riparte e nel 2010 la Einstein Multimedia, la casa di produzione di Luca Josi e Andrea Olcese, inizia a girare le puntate della seconda serie, concludendone ben 40, pronte per essere trasmesse dalla Rai. Ma qui arriva un altro stop. E dopo svariati tira e molla, dovuti alla cancellazione e successiva riallocazione delle risorse economiche pubbliche, sembrava che la macchina potesse ripartire definitivamente alla grande. Ma non è stato così, perché nello scorso mese di  marzo si è fermato tutto di nuovo e le maestranze e gli attori da allora sono bloccati, senza soldi e senza possibilità neppure di lavorare ad altro, avendo anche firmato dei contratti in esclusiva per Agrodolce. Ed adesso l’addio definitivo alla produzione da parte della Rai. Così, tirando le somme, alla fine tutta la vicenda si è rivelata un vero disastro per la Regione Siciliana, che dopo avere investito i suoi soldi, cioè quelli di tutti i cittadini nella fiction siciliana, insieme allo Stato si trova ora pure a pagare la cassa integrazione a 134 maestranze, al costo di circa 500 mila euro per 26 mesi. Ma cosa ha spinto Lorenza Lei, direttore generale della Rai, a chiudere senza tante spiegazioni la fiction, rinunciando peraltro a 25 milioni di euro di contributi pubblici già pronti per essere incassati e proprio in un periodo in cui lo stesso servizio pubblico piange miseria? Nessuno lo sa. Dure sono state comunque le reazioni a tale decisione. Per cercare di salvare il salvabile, sperando che la vicenda Agrodolce non si vada a sommare alla già tragica situazione della chiusura dello stabilimento Fiat, il sindaco di Termini Salvatore Burrafato ha pure scritto una lettera al presidente Napolitano, chiedendo un suo intervento perché da viale Mazzini arrivi quantomeno una ragionevole risposta. «Questa volta – ha scritto Burrafato al capo dello Stato - non sono nemmeno il "privato" o il mercato i responsabili di questa azione, ma il "pubblico"». «Com'è possibile – continua ancora il primo cittadino - che in quest'epoca grigia, di sofferenza economica e di tagli, Rai rinunci a 25 milioni di contributi già impegnati ed allocati dalla Regione Siciliana per quella produzione (così da andare ora dispersi)? Com'è possibile che Rai sprechi quest'opportunità e tiri un calcio alla fortuna, inginocchiando e compromettendo una realtà virtuosa? Com'è possibile che Rai, diversamente da tutte le istituzioni pubbliche, inclusa quella che io interpreto, goda di questo benessere finanziario che le consente tanta superbia e dissipazione di risorse pubbliche (situazione che in qualunque altro contesto interrogherebbe e verrebbe segnalata alla magistratura contabile)?» Se lo sono domandato in molti, pure la Einstein Multimedia, che ha depositato un ricorso d'urgenza per chiedere alla Rai di pagare milioni di fatture inevase da ottobre 2010, una montagna di extra costi prodotti dalle richieste della stessa tivù pubblica, e per imporre la riapertura della produzione secondo contratto. Ma sembra che non ci sia proprio nulla da fare, perché viale Mazzini appare sorda agli appelli e quello che è stato deciso è stato già detto. Punto. La scelta della Rai di rinunciare ad Agrodolce ed ai soldi di mamma Regione porta con se alcune conseguenze. Prima di tutto non avranno più ragione d’essere i teatri di posa ospitati presso l’ex colonia provinciale di contrada Impalastro, che quanto prima si pensa verranno smantellati, con restituzione delle strutture a palazzo Comitini. Poi bisognerà pure dire addio in modo definitivo al progetto dei mega studi cinematografici, che avrebbero dovuto essere costruiti a Buonfornello, anche perché già nella primavera del 2010 il consorzio Asi di Palermo aveva revocato la concessione del terreno alla Einstein Multimedia, bloccando la “città del cinema” di Termini Imerese, annunciata con grande enfasi da Gianni Minoli & c., che non aprirà mai più, forse vaticinando quanto sarebbe accaduto di lì a poco. Altra conseguenza della decisione Rai è la fine di quei sogni di alternativa alla chiusura dello stabilimento Fiat. È da tempo infatti che si parla di trasformare la fabbrica in teatri di posa, consentendo così di recuperare – almeno in parte – le maestranze ex Fiat, trasformando i metalmeccanici in “cinematografari”. Ora anche questo progetto è fallito, rivelandosi tutto un grande bluff, come del resto già scritto da Espero nel 2007. Siamo stati profeti di sventura? No, certamente. Forse abbiamo avuto il solo torto di riuscire a vedere al di là del limitato orizzonte che qualcuno disegnava per noi. Da questa vicenda abbiamo però tutti tratto una lezione: che non si può continuare a fare imprenditoria con i soldi pubblici, cioè con i soldi di tutti e non si può affidare lo sviluppo di una città, di un intero territorio sulle idee strampalate di quattro affaristi senza scrupoli. Ancor una volta sono stati illusi le speranze ed i sogni di tanti lavoratori.  

Pubblicato su: Espero - novembre 2011.

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