La
medicina è servizio. No, la medicina è scienza. Su La Lettura di domenica 24
giugno, inserto culturale del Corriere della sera, Umberto Curi (nomen-omen?) e Giuseppe
Remuzzi dibattono sul significato e sul ruolo attuale della medicina. La
società ha ribaltato il senso del termine terapia: non più “prendersi cura”, ma
“curare”, sostiene il primo; una carezza aiuta a stare meglio, ma non guarisce,
perché è la crescita delle conoscenze che ci rende più umani, afferma invece il
secondo.
Secondo voi chi ha ragione? Per contribuire pure noi al dibattito, ecco qui
il primo articolo a firma di Curi. L’altro lo potrete leggere domani.
«Servizio» — è questo il
significato originario del termine greco therapeía. E dunque è
letteralmente «servitore», colui che svolga la funzione del therápon.
Nell’Iliade, Patroclo, Automedonte, Alcimo sono presentati come therápontes
rispetto ad Achille, perché sono appunto al suo «servizio», perché lo
«assistono», agendo quali attendenti del grande guerriero. Di qui anche il
comportamento al quale essi dovranno attenersi. In quattro luoghi distinti del
poema, riferendosi specificamente a Patroclo, Omero impiega la stessa formula: phílo
epepeítheth’ etaíro — «obbedì all’amico». La therapeía implica l’obbedienza.
Non si può assolvere ai compiti previsti per il therápon, se non
ponendosi totalmente al servizio del proprio «assistito» e dunque prestandogli obbedienza.
Un contesto di significati molto
simile si ritrova anche in relazione al termine latino che corrisponde quasi
letteralmente alla parola greca therapeía. Difatti, cura sta a
indicare anzitutto la «sollecitudine», la «premura», l’«interesse» per qualcuno
o (più raramente) per qualcosa, senza che necessariamente questa disposizione
affettiva e/o emotiva debba necessariamente concretizzarsi in qualche atto
definito. Avere cura nei confronti di qualcuno vuol dire per prima cosa «stare
in pensiero», essere «preoccupati» per lui.
Una traccia non irrilevante di
questa accezione originaria si ritrova peraltro anche in alcune lingue moderne.
In inglese, to care for vuol dire «prendersi cura», senza riguardo ai
possibili modi concreti nei quali può tradursi questo atteggiamento, come è
confermato dall’uso prevalentemente intransitivo e «assoluto» dell’espressione I
care («mi interessa», «mi riguarda», «mi sta a cuore»). Ancora più
interessante è il termine tedesco Sorge (abitualmente tradotto con
l’italiano «cura»), soprattutto se ci si riferisce al significato col quale
compare in particolare in Essere e tempo di Martin Heidegger, dove
esso sta a indicare la determinazione ontologica fondamentale dell’Esserci,
vale a dire il fatto che l’Esserci è sempre «proteso verso qualcosa» ed è in
quanto tale espressione del «movimento» che è proprio della vita umana.
Per quanto inevitabilmente
cursoria, questa ricognizione etimologico-linguistica lascia emergere con chiarezza
un punto. Alle origini della tradizione culturale dell’Occidente — pensiamo a
quanto la Grecia resta importante — le parole che designano la «cura» alludono
a una condizione soggettiva —quella di chi «si preoccupa» e dunque si pone al
«servizio» — e non a un contenuto determinato nel quale si oggettiverebbe tale
«preoccupazione». Anche quando il soggetto di cui si parla assume una
configurazione in qualche modo tecnica, come avviene nel caso del medico, ciò
che i termini antichi sottolineano in lui non è la messa in campo di atti
specifici, bensì la presenza di una «preoccupazione» per colui che egli
dovrebbe assistere. Patroclo è genuinamente therápon di Achille non
perché faccia concretamente delle cose per lui, ma perché è in pensiero per
l’amico, perché lo ascolta (obbedire — ob-audire — vuol dire «mettersi
all’ascolto»). Analogamente, per essere fedele al mandato di Asclepio, il
medico ippocratico dovrà essere mosso da premura e sollecitudine nei confronti
di colui che gli è stato affidato, indipendentemente dal fatto che questa
attitudine debba tradursi nella somministrazione di farmaci o in altre pratiche
terapeutiche.
Con il passare dei secoli, si
assiste a una trasformazione radicale nel significato dei termini, quale
riflesso di un altrettanto profondo mutamento di ciò a cui questi termini si
riferiscono, in direzione di una spiccata tecnicizzazione. Da un lato, infatti,
titolare pressoché esclusivo della «cura» diventa il medico, unica figura
legittimata a svolgere il ruolo del therápon. Io posso bensì «essere
in pensiero» per il mio amico o il mio familiare; ma se voglio «curarlo» devo
affidare questo compito al medico. Dall’altro lato, e in connessione con questa
«professionalizzazione», la «cura» perde ogni connotazione «affettiva» e viene
piuttosto a indicare un complesso di pratiche che hanno quale loro
oggetto il paziente. Curare non è più — come in precedenza — un verbo che
allude allo stato d’animo del terapeuta verso il suo assistito, ma segnala la
molteplicità di azioni che il primo svolge sul secondo. Da verbo intransitivo
diventa un verbo transitivo che riguarda gli atti concreti effettuati su colui
che sia «oggetto» della cura.
Il culmine di questo processo si
raggiunge in concomitanza con la produzione industriale di massa e poi in maniera
sempre più accentuata nel corso degli ultimi decenni. La «cura» non ha più
alcun rapporto con la disposizione d’animo del terapeuta. Al contrario, questi
scarica sulla cura — i farmaci e ogni altro intervento di manipolazione del
paziente — ogni sua residua «preoccupazione». Materialmente impossibilitato a
stare in pensiero contemporaneamente per molte centinaia di individui, il
medico trasferisce e oggettiva la sua sollecitudine in una pluralità di atti
concreti, inevitabilmente «neutri» dal punto di vista sentimentale, la cui
efficacia dipende dunque esclusivamente da un’incidenza «misurabile» in termini
quantitativi. Si verifica dunque un vero e proprio capovolgimento. Il terapeuta
— non importa se del corpo (quale è il medico generico) o dell’«anima» (come
vorrebbe essere lo psicologo) — non è colui che, mosso da premura, «obbedisce»
al suo assistito ma, all’opposto, è colui che a questi impone di assoggettarsi
a una «cura», ormai totalmente spersonalizzata e tradotta nei costituenti
chimici di un farmaco. E tanto più valente sarà quel terapeuta che saprà
svolgere la sua funzione tecnica nella forma più a-patica, evitando
quel coinvolgimento emotivo/affettivo che potrebbe offuscare o compromettere la
sua capacità di «curare». Fino al paradosso del medico perfetto — immune da
ogni coinvolgimento personale, ignaro dell’identità e della «storia» del
paziente, e proprio per questo in grado di «curarlo» secondo
protocolli astratti universalmente convalidati, e dunque di principio
«efficaci» per qualunque paziente, a prescindere da peculiarità individuali.
Non è nota l’origine del termine
greco therápon. Si sa, tuttavia, che il suo significato richiama il
latino comes — «colui che accorre accanto», «che sta vicino», «che
assiste», magari senza «fare» nulla di preciso. Al culmine di un lungo percorso
storico-concettuale, il rovesciamento è totale. E la terapia potrà perfino
consistere nel dettare al telefono o nel trasmettere per via informatica i nomi
impronunciabili di alcuni farmaci.
Umberto Curi
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