Ieri
abbiamo voluto partecipare pure noi al dibattito se la medicina sia servizio
oppure scienza, aperto sulle pagine de La
Lettura di domenica 24 giugno, l’inserto culturale del Corriere della sera, da due articoli a firma di Umberto Curi e Giuseppe
Remuzzi.
Ieri
abbiamo pubblicato il pezzo di Curi, oggi ecco qui quello di Remuzzi.
Chi stabilisce cosa è meglio per
l’ammalato? In altre parole chi ti «cura»? Il dottore, chi se no? E il dottore
di un tempo era come quello di Lev Tolstoj ne La morte di Ivan Ilic?
«”Vedete, questo indica che nei vostri visceri accade qualcosa, ma se l’esame
della tale e tal altra cosa non lo confermasse, bisognerebbe supporre allora
questo e quest’altro. E se si suppone questo e quest’altro, in tal caso si
potrà fare così…”. A Ivan Ilic importava una sola cosa: il suo stato era grave
sì o no? “Ditemi, dottore, in generale questa malattia è grave oppure no?”. Il
medico lo fissò severamente, attraverso gli occhiali, come a voler dire:
accusato, se non state al vostro posto, sarò costretto a farvi allontanare
dall’aula. “Vi ho già detto, signore, tutto quello che ritenevo utile e
ragionevole che sapeste”».
Oggi è diverso, tanti ammalati
vanno dal dottore dopo aver passato ore in Internet, sanno già molto della loro
malattia e dei centri migliori e delle terapie più moderne. Sbagliato? Niente
affatto. Più un ammalato è informato, più è facile curarlo ed è specialmente
vero quando non ci sono abbastanza dati per sapere qual è la cosa giusta da
fare. Ma «curare non è più un verbo che allude allo stato d’animo del terapeuta
verso il suo assistito, segnala la molteplicità di azioni che il primo svolge
sul secondo» scrive Umberto Curi e poi «curare» o «prendersi cura»? Importa
poco, il rapporto dell’ammalato con il suo medico va ben al di là del curare o
prendersi cura, è tutt’altra cosa. La lettera della mamma di un ragazzo di 18
anni ci aiuta a scoprirlo: «Mio figlio ha avuto una diagnosi di ipertensione
polmonare e soffre di reni. Ho letto tanto e mi pare di aver capito che ci
potrebbe essere un legame tra queste due malattie. Lo hanno curato con un beta
bloccante, warfarina e l-arginina, la pressione nell’arteria polmonare è
tornata normale. È stato fortunato, perché mi pare, da quello che ho letto, che
una risposta così favorevole a questi farmaci sia insolita. Adesso però sta di
nuovo male, fatica un po’ a respirare. So che ci sono farmaci nuovi. Lei pensa
si possa usare la prostaciclina per bocca? L’ultima spiaggia per il mio ragazzo
potrebbe essere un antagonista di tipo A del recettore dell’endotelina. Pensa
che possa servire al mio ragazzo o farà male? Sono anche preoccupata per mia
figlia, ha 16 anni, studia a Oxford. Se prendesse la pillola, si ammalerebbe
anche lei? E se decidesse di avere una gravidanza, potrebbe avere
l’ipertensione polmonare? Forse potremmo incontrarci e parlarne».
Quello che il «New England Journal of
Medicine» nell’ultimo numero chiama «The changing task of medicine», la sfida
della medicina che cambia, è tutto qua, in questo «potremmo trovarci e
parlarne».
Per quelli che lo sanno fare — si
capisce — visto che all’università a parlare con gli ammalati non te lo insegna
nessuno. E un bravo medico deve anche saper ascoltare per poi suggerire le
soluzioni e i vantaggi e i rischi. E se una cosa non la sa fare lui, ti manda
dalla persona giusta (questo un po’ è prendersi cura) senza connotazioni
affettive o caritatevoli però, perché oggi è l’ammalato l’artefice vero del suo
guarire. Un po’ come dal barbiere — irriverente se volete, ma rende l’idea —
quasi nessuno di quelli che ci vanno dice «faccia lei». I più vogliono i
capelli così, la messa in piega cosà, il barbiere consiglia, ma si decide
insieme. Quando poi si ha a che fare con una mamma come quella della lettera —
e oggi di malati così o quasi così ce ne sono — servono conoscenze anche molto
sofisticate. Di medicina? Non solo, «serve curare lo spirito oltre che il
corpo» scrive il professor Veronesi, che è anche autore di un bellissimo libro:
Una carezza per guarire. Ma si può guarire con una carezza? Forse no,
ma certo si sta meglio. Entro certi limiti però: se uno ha un’emorragia
cerebrale quello di cui c’è bisogno è un neurochirurgo con la pratica giusta
(la téchne per dirla anch’io coi greci), uno che sappia operarti bene
insomma.
Per Matteo è stato proprio così.
Lui non ha nemmeno 50 anni, ha avuto bisogno della dialisi per più di 10 anni,
poi finalmente un trapianto gli ha ridato la vita. Moglie e due bambine e un
bel lavoro come avrebbe sempre voluto. Una sera non si sente bene, lo portano
al pronto soccorso. Sulle prime non sembra niente, gli esami del sangue sono
normali, fanno un elettrocardiogramma: normale, anche l’ecografia del cuore è
normale. Ma il cardiologo del pronto soccorso non si accontenta, fa un’altra
ecografia con una sonda che passa attraverso l’esofago.
C’è una fessura nell’aorta. È una
cosa grave, non c’è un minuto da perdere, con quella lesione il più delle volte
si muore. Dopo 10 minuti Matteo è in sala operatoria, niente Tac: non c’è
tempo, il cardiochirurgo di guardia quella sera è uno di quelli bravi.
Cominciano a operare alle 10 di sera e finiscono alle 7 del mattino dopo.
Matteo dopo pochi giorni lascia l’ospedale. Chissà, forse non si è nemmeno reso
conto di essere stato così vicino alla morte.
Le carezze per Matteo adesso sono
quelle delle sue bambine che possono ancora giocare con lui. Quel cardiologo e
quel chirurgo non li incontrerà nemmeno più. Saranno stati «in pensiero» per
lui? Non lo so, e non è nemmeno tanto importante. Certo che «contrapporre la
scienza all’attenzione per la persona è un vecchio trucco retorico: è la
crescita delle conoscenze che ci rende più umani» (Alessandro Pagnini, «Il Sole
24 Ore», 21 luglio 2010). Tanto più che oggi al letto dell’ammalato si
incontrano genetica, biologia, evoluzione, dati degli studi che servono per
guarirti e poi, psicologia sperimentale e persino neuroscienze. Dov’è finita
quella che chiamavano clinica? Non c’è quasi più e sta scomparendo anche chi
curava o si prendeva cura.
Resta una mole impressionante di
conoscenze che cresce ogni giorno e che consente di curare — e guarire certe
volte — malattie che fino a ieri erano senza speranza. Ricordo che Edoardo
Boncinelli in un suo scritto si chiedeva che senso avesse contrapporre la
scienza all’«umanesimo». C’è niente di più umano che studiare come è fatto
l’uomo? E come funzionano il suo corpo e la sua mente? E come essere d’aiuto se
qualcosa si inceppa?
Giuseppe
Remuzzi
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