Volevo condividere con voi questo
articolo, pubblicato su La Lettura di domenica 24 giugno, il supplemento culturale
del Corriere della sera. L’autore, Fabio Chiusi, ci spiega che dietro Internet,
la cloud ed il mondo virtuale, in realtà ci sono persone in carne ed ossa,
ingegneri e tecnici, cavi e computer che ci permettono di navigare sul web e
leggere quello che state leggendo in questo momento. Ma spesso lo scordiamo e siamo convinti di vivere in chissà qaule dimensione...
Internet non è un paesaggio della
mente o un luogo virtuale. La «Rete delle reti» è fatta di macchine, cavi,
fibra ottica, luce. Ha una realtà fisica e una geografia ben precisa. Di cui,
tuttavia, non ci curiamo. E che non conosciamo. Per Andrew Blum, giornalista di
«Wired» e autore del volume Tubes appena edito negli Stati Uniti, è
colpa di una concettualizzazione del web viziata da troppi anni di
contrapposizione frontale tra il virtuale, il cyberspazio, e il mondo che ci
circonda. E di un lessico ambiguo, che perpetua l’equivoco.
Si prenda la parola «nuvola» (cloud),
che identifica il trasferimento dei nostri dati dagli hard disk di casa ai
server in Rete: «È un termine così poco chiaro, non sappiamo dove sia», dice
Blum. «Ma più deleghiamo il controllo alla “nuvola”, più è importante sapere
dove sono le cose che la compongono, e come sono connesse».
Blum ne scopre le concretissime
conseguenze in un pomeriggio d’inverno, quando la Rete smette di funzionare
nella sua casa di Brooklyn: è bastato che il rosicchiare di uno scoiattolo
tranciasse un cavo. È lo spunto per chiudere il pc e intraprendere un «viaggio
al centro di Internet», tentando di rispondere alla domanda: ma a cosa siamo
realmente connessi? E come?
L’autore, come un Marco Polo del
digitale, esplora per due anni i luoghi inesplorati della geografia del web.
Vola a Los Angeles per vedere la macchina che ha trasmesso il primo segnale
sulla rete Arpanet, l’antenato di Internet, e a The Dalles, Oregon, sede della
«Kathmandu dei data center»: i «magazzini della nostra anima digitale». A Palo
Alto visita uno dei principali snodi della connessione globale, il Paix (Palo
Alto Internet exchange) e annota: «Queste connessioni sono sempre fisiche e
sociali, fatte di cavi e relazioni. Dipendono dalla rete umana tra ingegneri di
Rete».
Il giornalista scopre così che in
un centro di smistamento del traffico internet (Internet Exchange Point)
«vengono trasferiti in media intorno agli 1,2-1,3 terabit al secondo»: che
equivale a circa 700 enciclopedie da 15 mila pagine al secondo.
«Pensiamo che quando i dati
viaggiano attraverso Internet sia un processo istantaneo e automatico —
aggiunge durante una conversazione su Skype — invece può accadere solo perché
un piccolo gruppo di ingegneri ha costruito la Rete con le proprie mani».
Le strutture dipendono dalla
geografia. Per un data center serve un luogo senza rischi sismici e asciutto —
perfetto per rinfrescare gli hard disk con l’aria fresca. E conta la
disponibilità di quantità enormi di energia elettrica (consumano il 2% di
quella del pianeta). Alla sicurezza degli scanner biometrici e della
videosorveglianza, si aggiunge la segretezza: «La prima regola dei data center
è non parlare dei data center», scrive l’autore, come servisse un fight
club per proteggere i nostri dati. Poi ci sono i cavi sottomarini che
mettono in Rete i continenti. I percorsi dei bit seguono quelli della storia,
facendo scalo in porti secolari: Hong Kong, Singapore, New York, Mumbai, Cipro.
Navi specializzate conducono ricognizioni sul fondo dell’oceano, disegnando
attentamente i percorsi su cui stendere i cavi, evitando le linee solcate dalle
imbarcazioni e minimizzando il rischio di danni. Un errore può essere fatale:
quando nel 2006 un terremoto a sud di Taiwan causò un movimento del fondale
marino recidendo in più punti sette dei nove cavi che innervano la regione
asiatica, Cina, Hong Kong e lo stesso Taiwan andarono offline. E ci vollero due
mesi per ristabilire la normalità.
Per Blum i limiti fisici di
Internet non sono un ostacolo al suo sviluppo. Semmai, «ciò che ho compreso una
volta tornato a casa è che Internet non è un mondo fisico o virtuale, ma è un
mondo umano». A farlo funzionare, due figure. Gli ingegneri di Rete («nerd
estremi») e chi lavora alla posa dei cavi sottomarini: «Hanno tutti 42 anni»,
dice Blum sorridendo. «Sono grossi, perché trascorrono un sacco di tempo in bar
per marinai. E hanno quest’attitudine da James Bond, da cittadini del mondo a
loro agio ovunque». Figure dimenticate da una storia di Internet che, come nota
la scrittrice Christine Smallwood, è, soprattutto, «una storia di metafore su
Internet».
Fabio
Chiusi
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