Era digitale e crisi di leadership

Su La lettura del 5 maggio, il domenicale culturale del Corriere della sera, ho letto un interessante articolo a firma di Massimo Gaggi. L'autore parte dall'esame di un saggio di Eric Schmidt e Jared Cohen, recentemente pubblicato negli States, sulla nuova era digitale e la crisi di leadership, per poi esaminare le possibili implicazioni sulla politica e sulla leadership. Ecco l'articolo.

Tempo fa a Singapore due vicini di casa, un immigrato cinese e un indiano divenuto cittadino di questo Paese del Sud-Est asiatico, risolsero con l’aiuto di un arbitrato una controversia sul diritto di cottura del curry, il cui aroma intenso oltrepassava le pareti. L’indiano accettò di cucinarlo solo quando il cinese era fuori casa. Fine della disputa. Fino a quando, parecchio tempo dopo, il mediatore raccontò in pubblico la storia. Esplosero subito discussioni incandescenti in Rete: «I cinesi che ci dicono quando possiamo cucinare il curry e quando no? Un oltraggio all’intera comunità indiana». Battaglia su Internet a colpi di like, istituzione di una giornata nazionale del curry-cooking: la controversia condominiale diventò «Currygate».
Le proteste rischiarono di portare a scontri di piazza. Poi prevalse il buon senso e pian piano le acque si calmarono, ma la storia è emblematica dell’impatto politico della comunicazione digitale e delle reti sociali: capaci di far circolare informazioni ovunque e alla velocità della luce, ma anche di generare controversie dal nulla. Dibattiti istantanei su Facebook, tempeste di tweet che fanno emergere i punti di vista più disparati, ma rendono più difficile costruire il consenso. In Italia ce ne siamo accorti di recente con l’elezione del capo dello Stato: la rivolta contro la candidatura di Franco Marini, l’affossamento di quella di Romano Prodi, la tentazione di scendere in piazza contro la conferma di Giorgio Napolitano, la disputa sui numeri nei sondaggi in Rete su Stefano Rodotà. Ma il caso della lontanissima Singapore ci dice che il problema sta diventando planetario.
A raccontarlo è il primo ministro di quella repubblica, Lee Hsien Loong, leader di una tecnocrazia efficiente, pronta a comprimere qualche libertà democratica sull’altare della stabilità del Paese: uno da prendere con le molle. Ma Lee sa di cosa parla perché di formazione è un computer scientist ed è significativo che anche un Paese che ha gli strumenti per esercitare un forte controllo sui suoi cittadini si senta fragile, vulnerabile, davanti alla Rete. Così come è significativo che la storia del «Currygate» e i giudizi di Lee («Internet può funzionare da valvola del vapore di una società, ma può servire anche per provocare incendi: sul web è molto più facile essere contro che a favore di qualcosa») vengano ripresi con grande rilievo dal presidente di Google, Eric Schmidt, e da Jared Cohen, un esperto di relazioni internazionali, oggi a capo di Google Ideas, il «pensatoio» dell’azienda, in The New Digital Age. Il libro, appena uscito negli Usa, è un tentativo di analizzare l’impatto delle tecnologie sull’uomo: le conseguenze politiche di Internet e delle reti sociali, ma anche lo stravolgimento di diritti individuali come quello alla privacy, fino ai nuovi rischi di guerra cibernetica e terrorismo digitale.
Libro coraggioso, quello di Schmidt: il capo dell’azienda che più di qualunque altra ha rivoluzionato la nostra vita con la tecnologia resta convinto che nel lungo periodo la civiltà digitale farà fare grandi progressi all’umanità, ma non abbraccia l’ottimismo di chi vede nella Rete la soluzione di tutti i problemi. Anzi, traccia un quadro problematico, a tratti angoscioso.
L’immagine è quella di un mondo poco governato, con i Paesi afflitti da una impressionante crisi di leadership. E qui l’uomo di Google fa parlare un vecchio saggio come Henry Kissinger: «Il cittadino potenziato dalla Rete sa come portare la gente in piazza, ma non cosa fare quando la piazza è piena. E chi riesce ad abbozzare una strategia, la vede subito contestata: le idee, anche quelle buone, perdono efficacia molto rapidamente». Per l’ex segretario di Stato Usa «i de Gaulle e i Churchill difficilmente sarebbero emersi nel mondo di Facebook: la leadership personale è un fattore umano dell’individuo, non può essere sostituita da un’articolazione sociale, da una comunità». Condivide Jared Cohen: «Un leader si forma nell’arco di decenni. Poi, a un certo punto, emerge come figura pubblica: pensate a Mandela o a Walesa. Le rivoluzioni di oggi sono rapidissime: danno la celebrità a molti protagonisti che, però, non hanno competenze né hanno la stoffa del condottiero». Che cosa accadrà, allora, nel laboratorio della Primavera araba? La parola di nuovo a Kissinger: «Non aspettatevi democrazie jeffersoniane. Nel rinnovamento ci sarà sempre qualche elemento autocratico: il potere, anziché concentrato nelle mani di un dittatore, sarà diffuso all’interno di una coalizione di forze autoritarie, prive di un leader carismatico». Lo stiamo già vedendo nell’Egitto di Morsi e dei Fratelli musulmani.
Cambia la politica, ma anche la sicurezza. Il libro contempla perfino lo scenario ipotetico di un’America messa al tappeto da un attacco simultaneo a tutte le sue reti digitali: elettricità, telecomunicazioni, traffico aereo, acquedotti, banche. E Jared Cohen confessa, chiacchierando a margine di una presentazione del libro a Washington, che il pensiero di quello che possono fare i terroristi con Internet non lo fa dormire la notte.
L’attentato di Boston, per certi versi, è già preistoria. Le bombe «fatte in casa» del futuro sono i minidroni-giocattolo, da tempo in vendita per poche centinaia di dollari: «Il quadricopter della Parrott — scrivono Schmidt e Cohen — è stato uno dei giocattoli più venduti a Natale. È già equipaggiato di telecamera e può essere pilotato con uno smartphone. La possibilità di armarlo con una bomba è dietro l’angolo». Del resto Internet, che oggi ha due miliardi di utenti, entro una decina d’anni raggiungerà altri 5 miliardi di abitanti del pianeta. Con benefici enormi, soprattutto per i Paesi più poveri, dicono gli autori. Ma anche con problemi formidabili per gli equilibri politici e sociali.
Dopo i saggi di Jaron Lanier (Who Owns the Future, in uscita in questi giorni negli Usa, ma già da tempo in libreria in Gran Bretagna) e di Evgeny Morozov (To Save Everything, Click Here), duri atti d’accusa contro le illusioni dei tecno-utopisti, The New Digital Age era atteso come una replica tranquillizzante, magari anche enfatica, confezionata dal mondo delle Internet company. Ma Schmidt, che a 58 anni appena compiuti è un manager diverso dai tanti «geni della Rete», per la sua capacità di filtrare le esperienze tecnologiche nelle quali è immerso attraverso le radici della sua cultura classica, ha scelto di non sposare acriticamente l’ideologia del web. Ha girato il mondo, dalla Mongolia al recente viaggio in Corea del Nord. Alla ricerca di risposte a domande angosciose, è andato a parlare con molta gente: dagli uomini dei servizi segreti a Julian Assange.
Chi vede in Internet lo «smacchiatore» della democrazia dovrebbe riflettere sulle pagine dedicate a illusioni e delusioni di Google in Cina o su quelle in cui si descrive l’impatto drammatico che potrebbe avere, nel mondo arabo e nei rapporti internazionali, la nascita di un web sunnita. The New Digital Age è stato scritto con una notevole dose di onestà intellettuale, salvo un’unica, grossa (forse inevitabile) eccezione. Il saggio non parla mai direttamente di Google né del ruolo delle multinazionali digitali nella trasformazione della società. E se Lanier vede proprio in Google, Facebook e gli altri giganti del web i pilastri di un nuovo monopolio dell’informazione che condiziona i governi, accentua le diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza e aggrava il problema della disoccupazione nell’era dell’automazione galoppante, Schmidt e Cohen citano solo incidentalmente le società della Rete, presentate comunque come un fattore di progresso.
Delusi dalla prospettiva di andare verso un mondo che, anziché aprire la strada della democrazia elettronica perfetta, entra nella privacy di consumatori radiografati a fini commerciali e anche di elettori seguiti dall’occhio delle tecnologie Big Data messe in campo dai partiti? Inutile fasciarsi la testa, replicano Schmidt e Cohen. Quel che accade è in gran parte ineluttabile: «Internet è il più grande esperimento anarchico della storia».
Non serve chiudere gli occhi davanti alla realtà, meglio costruire gli argini possibili. Ad esempio preparando già a scuola i ragazzi a difendere la propria reputazione sul web: le tecniche di tutela di privacy e sicurezza delle comunicazioni in Rete devono diventare materia d’insegnamento, come l’educazione sessuale. O proteggendosi con specifiche polizze dagli effetti di incursioni più o meno lecite nel proprio patrimonio di dati personali: per gli autori sarà questo il nuovo business delle assicurazioni. E basta con il «fideismo del web» che, ormai sostanzialmente accantonato negli Usa, in Italia ancora regna sovrano come ha sottolineato in un’intervista con il «Corriere della Sera» Harper Reed, guru tecnologico della campagna elettorale del presidente Usa: ragazzi che confondono l’imponente data mining dell’organizzazione di Obama con la democrazia digitale e chiedono a Reed risposte che lui non ha e non pretende di avere.

Fonte: Corriere della sera - La lettura.

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