La rinuncia agli immobili infruttiferi

Ma come posso rinunciare ad un terreno abbandonato, che non mi frutta niente ed è solo fonte di spese e seccature? Questa domanda mi è stata posta da un’amica qualche tempo fa ed io ho risposto dicendo che sì, c’è la possibilità della rinuncia. A prima vista sembra una risposta strana, tanto per fare contenta l’amica ansiosa, ma in realtà, se vediamo più da vicino i fatti, capiamo che non lo è, perché si tratta di una ipotesi prevista dalla legge. È possibile infatti rinunciare alla proprietà o alla quota di comproprietà di un bene “fastidioso”, fonte solo di rogne e costi, tasse e spese, ma non ad utili. In passato, quando i tributi locali erano minori ed il tenore di vita certamente più elevato di adesso, il problema della proprietà “fastidiosa”, infruttuosa si poneva raramente, perché in ogni caso era sempre “la proprietà” a cui raramente si rinunciava. Oggi, invece, che sono in molti a tagliare le spese inutili, avere a che fare con proprietà immobiliari di nessuna utilità, anzi produttive di costi, spinge tanti a pensare di liberarsi di questi “pesi” superflui. Cosa succede allora in caso di rinuncia al diritto di proprietà? Per l’articolo 827 del codice civile il bene che non appartiene a nessuno, perché il suo proprietario vi ha rinunciato, diventa proprietà dello Stato. Se invece il bene è in comproprietà con altri e si rinuncia solo alla propria quota di comproprietà, si ha una “espansione” del diritto di proprietà degli altri comproprietari, che aumentano – per effetto della rinuncia – la loro quota di partecipazione al bene. Essi, se non gradiscono l’altrui rinuncia e non vogliono aumentare la loro partecipazione al bene, non possono certo impedirla, ma possono pur sempre rinunciare a loro volta alla propria quota di comproprietà, fino a che non rimanga un unico proprietario. E se questi – per ipotesi - dovesse pure lui rinunciare al suo diritto, il bene diviene di proprietà dello Stato. La rinuncia può essere “abdicativa”, che comporta la dismissione del diritto in capo al rinunciante e l’espansione automatica della quota in capo agli altri comproprietari “superstiti” (così, ad esempio, se un  immobile è di proprietà indivisa di quattro persone, in ragione di un quarto ciascuna, la rinuncia di una di esse determina l’espansione della quota di proprietà dei tre comproprietari residui, da un quarto a un terzo), senza perdere l’obbligo di pagare le spese già prodotte in passato per la gestione e manutenzione della cosa comune, oppure “liberatoria”, che provoca proprio la liberazione del comproprietario rinunciante dal pagamento delle spese (esempio, le spese sostenute per la manutenzione dell’immobile), non solo quelle future, ma anche quelle già prodotte in passato (articolo 1104 del codice civile). Quanto detto fin qui non vale però per il condominio, perché l’articolo 1118 del codice civile vieta la rinuncia del singolo condòmino alla comproprietà delle parti comuni dell’immobile in condominio, perché il condominio è una situazione di comproprietà “necessitata” a cui non si può rinunciare per liberarsi dalle spese condominiali, se non vendendo l’immobile. La rinuncia alla quota di comproprietà è stata considerata dalla Corte di cassazione (sentenza 3819 del 25 febbraio 2015) come una “donazione indiretta”, perché indirettamente si raggiunge il risultato della donazione, cioè di beneficiare gratuitamente un’altra persona. Può accadere infatti che colui che rinuncia alla comproprietà di un bene lo faccia per beneficiare chi subisce l’accrescimento della propria quota di comproprietà per effetto della rinuncia (esempio: i coniugi sono comproprietari di un appartamento. Uno di essi vuole beneficiare l’altro ricorrendo o alla donazione della sua quota all’altro, oppure rinunciando alla sua quota, che così si accrescerà a quella rimasta in capo all’altro coniuge, che diviene proprietario esclusivo del bene).

Pubblicato su: Il Mercatino - maggio 2015.

Commenti

blogger ha detto…
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